E’ da poco trascorsa la Giornata Mondiale dell’Ambiente che, puntualmente, porta a fare riflessioni sull’importanza dei cambiamenti climatici, dell’innalzamento delle temperature, dell‘inquinamento, della deforestazione e della biodiversità che va assolutamente preservata.
A riguardo, c’è chi a parlare “green” è bravissimo ma nei fatti si comporta ben diversamente. E’ il caso, ad esempio, della compagnia petrolifera italiana Eni che, pur avendo annunciato da tempo la sua svolta verde, fa tutt’altro, tra inquinamento e guai giudiziari e stranamente le notizie che la riguardano in tg o sui quotidiani tendono a scomparire. Un caso?
L’inchiesta di FQ Millennium
In proposito, molto interessante è l‘inchiesta di FQ Millennium, risalente al novembre 2019, prima che il Covid-19 sconvolgesse letteralmente le nostre vite.
In essa sono smascherati i cosiddetti ipocriti del verde che non sono solo i grandi inquinatori che pubblicamente si presentano come “puliti” (praticando il greenwashing), ma anche i media, retribuiti tramite pubblicità, piccoli e grandi tornaconti per giornalisti e direttori, in modo da non intaccare, in nessun modo, l’aureola verde di chi dei cambiamenti climatici e compagnia bella non se ne frega nulla.
A queste categorie si aggiungono i politici che a parole aderiscono ad ideali green ma nei fatti non supportano finanziariamente manovre sgradite ai grandi gruppi industriali che si professano green.
Il greenwashing all’italiana
Pur essendo anglosassone, il termine di certo non risparmia l’Italia, Paese che fa leva su Greta Thunberg e sui ragazzi di Fridays For Future, che li invita a fare il nuovo 68, paragonandoli alla “meglio gioventù”, così come fanno La Stampa e il Messaggero, passando per la Mondadori, dove vengono distribuiti best-seller della giovane attivista svedese dal titolo “La nostra casa è in fiamme” e “Nessuno è troppo piccolo” come se fossero dei salva-pianeta.
La logica del greenwashing
Strategie di marketing e operazioni di fidelizzazione green, che di verde hanno solamente il colore delle cifre del loro fatturato, vogliono farci sembrare sostenibili aziende e società che, in realtà, hanno impatti distruttivi sull’intero pianeta.
Il termine greenwashing nasce dalla fusione di green (verde, usato per descrivere prodotti ecologici) e whitewashing (lavaggio in bianco); un neologismo inventato da Yay Westerveld, ambientalista statunitense che, per primo, lo impiegò nel 1986 per descrivere il comportamento di alcune grandi aziende che avevano dichiarato di aver realizzato politiche ambientaliste per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalle responsabilità derivanti dall’inquinamento causato dalle proprie attività produttive.
Come non cadere nella trappole della finta sostenibilità
Per non cadere nella trappola della finta sostenibilità, per fortuna, la tecnologia ci viene in soccorso con delle app che permettono di conoscere, in modo dettagliato, l’impronta ecologica dei nostri prodotti.
Sul web è possibile reperire info dettagliate sulla reputazione dell’azienda e sulla sua effettiva sostenibilità, così come doveroso è leggere attentamente le etichette riportate sui prodotti e reperire informazioni sui criteri di assegnazione di certificati e loghi.
Solo grazie a questi accorgimenti sarà possibile premiare lo sforzo e la lungimiranza di chi ha davvero a cuore la salute dell’ambiente, punendo chi si arricchisce a discapito della salute del pianeta.