Inquinamento da Pfas: le patologie riproduttive femminili, come l’endometriosi, alterazioni del ciclo, aborti spontanei, possono essere correlate all’azione delle sostanze perfluoroalchiliche (Pfas) sulla funzione ormonale del progesterone, ormone femminile che agisce a livello dell’utero.
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Pfas e fertilità femminile
Queste informazioni nascono dalle scoperte di un gruppo di ricerca dell’Università di Padova coordinato da Carlo Foresta, con Andrea Di Nisio e Manuela Rocca, che ha valutato l’effetto dei Pfas sull’azione del progesterone.
Dall’analisi delle cellule endometriali in vitro si è visto che i Pfas interferiscono vistosamente sulla regolazione dei geni espressi a livello dell’endometrio; su più di 20.000 geni analizzati, il progesterone normalmente ne attiva quasi 300, ma la ricerca ha riscontrato che in presenza di Pfas ne vengono alterati 127, tra cui quelli che preparano l’utero all’attecchimento dell’embrione e quindi alla fertilità.
Pfas e fertilità maschile
Lo stesso gruppo di ricerca, un anno fa, aveva individuato il meccanismo attraverso il quale i Pfas alterano sia lo sviluppo del sistema uro-genitale che la fertilità negli uomini, interferendo con l’attività del testosterone. «A questo punto – commenta Foresta – la comprensione di un’interferenza importante dei Pfas sul sistema endocrino-riproduttivo sia maschile che femminile e sullo sviluppo dell’embrione, del feto e dei nati, suggerisce l’urgenza di ricerche che intervengano sui meccanismi di eliminazione di queste sostanze dall’organismo, soprattutto in soggetti che rientrano nelle categorie a rischio».
Scoperti batteri che possono eliminare i Pfas
Un’importante scoperta legata ai Pfas, sostanze perfluoroalchiliche che inquinano e sono dannosi per la salute umana, è stata resa nota recentemente dopo uno studio condotto negli Usa dall’Università di Princeton i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Environmental Science and Technology.
In questo studio si è visti come dei comuni batteri presenti nel suolo delle paludi del New Jersey mangiano queste sostanze, i Pfas, e altre simili, nocive per l’ambiente e per l’uomo. Questi microrganismi, in particolare l’acidimicrobium A6, hanno dimostrato di poter rompere il legame chimico carbonio-fluoro e così rimuovere il 60% dei Pfas nell’arco di 100 giorni.
Lo studio nello specifico prevedeva che i batteri fossero stati fatti proliferare in laboratorio, aggiungendo poi due tipologie di sostanze perfluoroalchiliche si notava come i batteri provocassero delle reazioni chimiche nei Pfas rimuovendo da questi gli atomi di fluoro e rendendoli di conseguenza non tossici. Dopo 100 giorni i batteri avevano eliminato tra il 50-60% dei Pfas presenti nelle colture.
Il passo successivo e più importante sarà quello di provare direttamente dal vivo questa scoperta e vedere se sul campo funziona.
La battaglia contro i Pfas
Mentre in Italia intere famiglie lottano contro l’inquinamento dei Pfas dopo che sono stati trovati alti livelli di sangue nei loro bimbi e in loro stessi, a seguito dell’ inquinamento delle falde acquifere, in Danimarca ne è stato vietato l’uso nei contenitori alimentari affermando che “fortunatamente esistono altri modi per produrre carta impermeabile al grasso e all’acqua che non hanno alcun potenziale cancerogeno”.
Tramite interrogazione con Sara Cunial e le colleghe Veronica Giannone @Gloria Vizzini Silvia Benedetti Portavoce alla Camera è stato richiesto al Ministro competente come intenda agire per tutelare la salute pubblica, vietare finalmente la presenza di queste sostanze in oggetti di uso comune quali pentole, padelle e contenitori alimentari, nonché abbigliamento e giochi per l’infanzia e garantire zero Pfas nelle nostre acque, così come già promesso anche dal Ministro dell’Ambiente in questa stessa legislatura.
Cosa sono i Pfas
I PFAS (sostanze perfluoroalchiliche) sono dei pericolosi perturbatori endocrini. Alcuni studi hanno dimostrato come l’esposizione prolungata possa portare all’insorgenza di diversi tumori (ai reni e ai testicoli), così come a malattie della tiroide, ipertensione in gravidanza, colite ulcerosa. L’inquinamento da PFAS sarebbe inoltre correlato a un aumento delle patologie gestazionali e nel feto, con malformazioni congenite.
Inquinamento da PFAS: l’emergenza è solo in Veneto? Al di là dell’attenzione mediatica che ha interessato la Regione guidata da Zaia, l’allarme è diffuso anche in altre regioni. E intanto Greenpeace chiede che le aziende responsabili per la contaminazione paghino i danni per le bonifiche.
È quindi giustificato il livello di allarme registrato in Veneto, regione dove tali sostanze sono state individuate in elevatissime concentrazioni nell’acqua definita ‘potabile’. La situazione è stata resa nota già da diversi mesi. Eppure, ad oggi, pare che il governo sia immobile sulla questione.
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Inquinamento da PFAS: l’emergenza in Veneto
Tre le province particolarmente colpite: Vicenza, Verona e Padova. Decine i comuni coinvolti. L’inquinamento da PFAS in Veneto ha raggiunto concentrazioni nelle acque pari o superiori a 2.000 nanogrammi per litro. 60mila sarebbero i cittadini colpiti, 25mila le persone sottoposte ad alto rischio.
Le cause sarebbero da individuare nell’azienda Miteni, nel comune di Trissino (VI), considerata la principale fonte di inquinamento da PFAS per la regione. Ne parleremo a breve. Intanto cerchiamo di capire come le istituzioni hanno fronteggiato l’emergenza.
Luca Zaia, il presidente della Regione Veneto, accusa il governo di immobilismo:
«I ministeri italiani – ha dichiarato – non vogliono emanare una legge nazionale sui limiti dell’inquinante e allora in questa regione ci arrangeremo. In piena autonomia, procederemo a una drastica riduzione dei limiti dei Pfas che possono essere presenti nelle acque delle rete idrica. I futuri limiti saranno molto bassi, assimilabili a quelli oggi in vigore in Svezia».
Per fronteggiare all’emergenza, la regione ha chiesto inoltre 80 milioni al governo. Fondi che sarebbero necessari per interventi strutturali sulla rete idrica. Ma lo stanziamento non è stato ancora messo a bilancio: Zaia accusa la Ragioneria generale del ritardo; l’opposizione in consiglio regionale, invece, punta il dito sullo stallo della stessa giunta veneta. Insomma, il solito scarica barile.
Nel frattempo, arrivano i primi risultati dei controlli clinici avviati a gennaio 2017. In ragazze e ragazzi di 14 anni sono state individuate tracce non trascurabili di Pfas nel sangue: da 70 fino a 300 nanogrammi per grammo. Basti pensare che la media (identificata da alcuni studi in Nord America) è di 2-3 nanogrammi per persona, per comprendere l’entità del rischio.
Inquinamento da PFAS: chi paga?
Se la Regione attende i fondi ministeriali, c’è intanto chi pretende il giusto risarcimento da parte di chi avrebbe causato il problema. È il caso di Greenpeace, che ha presentato nei giorni scorsi a Venezia un rapporto intitolato “Emergenza Pfas in Veneto, chi inquina paga?”.
Il report è stato creato da SOMO, istituto di ricerca indipendente olandese, e da Merian Research di Berlino. L’obiettivo: far luce sull’assetto societario di Miteni. Alcuni dirigenti dell’azienda risultano ad oggi indagati dalla Procura di Vicenza per reati ambientali. Se venissero condannati, alla Miteni spetterebbe coprire i costi delle bonifiche.
Il problema è che l’azienda ha chiuso in passivo i propri bilanci negli ultimi 10 anni e potrebbe far fronte a eventuali risarcimenti per appena 6,5 milioni di euro. Una cifra irrisoria se paragonata ai circa 200 milioni necessari secondo la regione. Ma l’analisi diffusa da Greenpeace mostra una realtà diversa. Miteni fa infatti parte del gruppo ICIG, dal 2009. A sua volta, il gruppo è controllato dalla holding ICI SE (International Chemical Investors), con sede in Lussemburgo. Quest’ultima aveva in cassa, a fine 2016, più di 238 milioni di euro.
Sulla scarsa liquidità di Miteni, è importante riportare le parole di Giuseppe Ungherese, responsabile per la Campagna Inquinamento di Greenpeace:
«I dati pubblicati oggi indicano che Miteni versa in una situazione finanziaria estremamente difficile. La domanda che si fanno i cittadini e che si è fatta anche Greenpeace è: chi paga? Pare escluso che Miteni, se condannata, possa risanare questo territorio e risarcire i suoi cittadini per i danni sanitari e ambientali di un inquinamento che coinvolge più di 350 mila persone. Uno dei cardini dell’ordinamento giuridico italiano ed europeo – chi inquina paga – verrebbe così eluso».
Inquinamento da PFAS in Veneto: Miteni si “smarca”
Secondo quanto riporta ancora Greenpeace nel report, la proprietà Miteni “ha più volte sostenuto di non essere responsabile dell’inquinamento, riconducendolo alle precedenti gestioni”. La società dichiara inoltre di “non essere a conoscenza dei gravi rischi ambientali connessi al sito di Trissino prima di procedere all’acquisto”. Affermazioni che però la ong rispedisce al mittente.
Greenpeace ricorda infatti come la società sia stata venduta da Mistubishi a ICIG per il prezzo simbolico di 1 solo euro, a fronte di un valore di 33 milioni. Allo stesso tempo, esiste una continuità di cariche tra le due diverse gestioni. Fatti, questi, che “pongono dei seri interrogativi sulla possibilità che l’attuale proprietà non sapesse della contaminazione”.
Un altro indizio. Nel bilancio del 2009, Milteni fa riferimento alla creazione di una “barriera idraulica”, una tecnica di bonifica tra le più diffuse. L’opera, attiva già dal 2005, era stata attivata “secondo i programmi concordati con le autorità locali”.
«Per quale ragione – si chiede Greenpeace – Miteni avrebbe realizzato nel 2005 un’opera così importante? Sulla base di quali dati ambientali le autorità locali hanno chiesto a Miteni di migliorare la barriera idraulica già attiva dal 2005? Eppure varie autorità locali sostengono di essere state informate del “rischio PFAS” solo nel 2013».
Inquinamento da PFAS: il problema è nazionale
Ma l’inquinamento da PFAS rischia di diventare un’emergenza di portata nazionale. Secondo alcune ricerche, infatti, il problema non sarebbe concentrato alla sola regione veneta.
Uno studio del Cnr, realizzato nel 2013, parla infatti di contaminazioni anche in altri territori: Santa Croce sull’Arno, in provincia di Pisa; il sottobacino Adda-Serio, in Lombardia; l’area del Bormida; l’asta del Po da Torino a Ferrara.
Insomma, le istituzioni nazionali non possono far finta di niente. Lo afferma anche Gianpaolo Bottacin, assessore all’ambiente della Regione Veneto, in una dura requisitoria nei confronti del governo:
«Il medesimo Ministero va poi corretto anche laddove sostiene che nelle altre regioni il 90% dei campioni analizzati hanno concentrazioni molto basse, inferiore a 50 ng/l, poiché in realtà lo studio del CNR del 2013 ha riscontrato in acquedotti di una città non veneta ben 120 ng/l di Pfos, la sostanza più pericolosa della famiglia Pfas (in Veneto il limite è 30 ng/l). Ciò significa che ad oggi ci sono italiani al di fuori del Veneto che bevono acqua inquinata più degli scarichi industriali del Veneto e questo per me è a dir poco preoccupante. Per cui sarebbe opportuna una valutazione più accurata dei dati da parte del ministero della salute».
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