Lo smartphone? Crea dipendenza come la cocaina: una psicologa esperta ci spiega perché dare ai propri figli uno smartphone è come fornirgli droga o alcol. Ecco come intervenire per scongiurare la dipendenza.
Non usa mezzi termini Mandy Saligari. Lasciare in mano uno smartphone ai bambini o a un adolescente, equivale a “dargli un grammo di cocaina”. Durante una conferenza, la psicologa spiega gli effetti dei cellulari intelligenti sui più giovani. E lo fa dall’alto della sua esperienza nel trattamento di tutti i tipi di dipendenza. Anche quelle da social network, sempre più diffuse tra i ragazzi.
Ecco le sue parole, riportate dal quotidiano britannico The Independent.
Cocaina, alcol e smartphone hanno effetti simili
«Lo dico sempre alle persone: quando date a vostro figlio un tablet o un telefono, gli state dando in realtà una bottiglia di vino o un grammo di cocaina. Siete davvero sicuri di lasciarli da soli con questi oggetti? Perché poniamo così poca attenzione ai prodotti tecnologici rispetto alle droghe o all’alcol, quando hanno lo stesso effetto sugli impulsi cerebrali?».
Mandy Saligari ha visto gli effetti dei dispositivi elettronici su un’intera generazione.
Psicologa, esperta di dipendenze e rapporti familiari, guida la Harley Street Charter, clinica di riabilitazione londinese. La dottoressa spiega che oggi i due terzi dei suoi pazienti sono di età compresa tra i 16 e i 20 anni. Un trend che purtroppo ha visto un “incremento drammatico” negli ultimi 10 anni. E, spiega sempre Saligari, molti dei suoi pazienti sono ancora più piccoli.
Lo smartphone ai bambini è quindi equiparabile come la cocaina: come disintossicarsi?
Se davvero smartphone e tablet hanno lo stesso effetto della cocaina, come sostiene Saligari, è necessario mettere in atto una serie di azioni per prevenire la dipendenza. E “curarla” quando essa è già in atto. Una regola fissa ovviamente non c’è.
L’idea è di far capire ai ragazzi l’influenza che i dispositivi hi-tech possono avere sulla qualità e la quantità del sonno, per esempio. Il giusto riposo deve essere garantito per evitare brutte battute d’arresto nello studio, nello sport e poi nella vita lavorativa negli anni a venire.
In particolare, gli esperti propongono un “coprifuoco digitale” a casa e a scuola. In classe, per esempio, gli smartphone dovrebbero restare spenti durante le lezioni, e togliere lo smartphone ai bambini deve risultare la normalità.
«Con i ragazzi di 11-12 anni e gli adolescenti – spiega ancora l’esperta – ci sarà sicuramente della resistenza: per loro, lo smartphone è come una terza mano. Ma non credo sia impossibile intervenire. Credo sia un’ottima cosa, per esempio, che le scuole chiedano agli studenti di trascorrere almeno alcune ore lontani dai propri telefoni».
Saligari propone poi ai genitori un approccio collaborativo con i propri figli:
«Chi riesce a scoprire una dipendenza di questo tipo ai suoi primi stadi, può insegnare ai propri ragazzi ad auto-regolarsi. Non agiamo come una forza di “polizia”, imponendogli cosa fare e cosa non fare. Piuttosto proviamo a spiegargli: “In queste ore del giorno non c’è spazio per la tecnologia; in queste altre ore, invece sei libero. Impara ad auto-regolarti. In questo modo godrai di entrambi i momenti”».
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Il pericolo sexting anche negli smartphone ai bambini
Oltre all’allarme dipendenza da smartphone e social, la psicologa sottolinea la forte inclinazione dei ragazzi a praticare il cosiddetto sexting. La parola – mutuata dall’inglese – si compone di due parti: sex, sesso, e texting, inviare messaggi, sms.
«Troppi miei clienti – spiega ancora la dottoressa Saligari – sono ragazze di 13 e 14 anni coinvolte nella pratica del sexting. E lo descrivono come ‘perfettamente normale’».
In particolare, inviare delle fotografie di se stesse completamente nude con lo smartphone è considerato normale tra le pazienti dell’Harley Street. Diventa “sbagliato”, nella percezione dei ragazzi, solo quando un genitore o un’altra persona adulta lo vengono a sapere. Il rimedio c’è:
«Se ai bambini viene insegnato il rispetto di sé, saranno meno propensi a permettere forme di sfruttamento simili. Si tratta quindi di una questione di rispetto di se stessi e di identità personale», spiega Saligari.