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Biologico ed equosolidale sono la stessa cosa? Ecco quando l’amore per l’ambiente si unisce alla tutela dei diritti per gli esseri umani
In questi ultimi anni abbiamo molto sentito parlare di biologico e sostenibile. Biologico, però, non sempre si accompagna anche a equosolidale. Cerchiamo di capire meglio la differenza tra i due concetti e quando questi due importanti valori viaggiano insieme.
Agricoltura biologica
L’agricoltura biologica è quel metodo di coltivazione e di allevamento che utilizza solo sostanze naturali, quelle cioè presenti in natura. È rigorosamente bandito, quindi, l’utilizzo di sostanze chimiche di sintesi (concimi, diserbanti, insetticidi).
Chi pratica il metodo biologico vuole innanzitutto evitare lo sfruttamento eccessivo delle risorse naturali, in particolare del suolo, dell’acqua e dell’aria.
Per salvaguardare la fertilità naturale di un terreno, gli agricoltori biologici utilizzano materiale organico e ricorrono ad appropriate tecniche agrarie.
Allevamento biologico
Nell’applicazione di tecniche di allevamento biologico, gli animali vengono nutriti con erba e foraggi naturali. Non gli vengono somministrati antibiotici, ormoni o altre sostanze che stimolino artificialmente la crescita e la produzione di latte. Le aziende, inoltre, devono essere dotate di ampi spazi che consentano agli animali di muoversi e pascolare liberamente.
Italiani pazzi per il bio
Mangiare bio piace agli italiani e ciò spiega perché il nostro paese sia primo in Europa per superficie e numero di produttori.
Secondo l’ultimo rapporto “Bio in cifre” condiviso da Sinab, in Italia, le imprese inserite nel sistema di certificazione per l’agricoltura biologica sono arrivate ormai a 59.959.
Solo nel 2015, hanno scelto di convertire la propria impresa al bio oltre 4.500 operatori, registrando un +8,2% di operatori in più rispetto all’anno precedente.
La superficie coltivata secondo il metodo biologico in Italia si estende per 1.492.579 ettari, con un aumento complessivo, rispetto all’anno precedente, del 7,5%.
Le Regioni in cui sono presenti il maggior numero di operatori biologici sono la Sicilia, la Calabria e la Puglia. In queste Regioni si concentra circa il 45% del totale degli operatori italiani.
I cittadini italiani hanno ormai compreso che mangiare bio è un valore. A costo zero per la società e senza impatto sull’ambiente.
A livello teorico, non è detto però che l’agricoltura biologica oltre a essere sostenibile per l’ambiente lo sia anche per la società.
Un agricoltore biologico, infatti, potrebbe anche utilizzare della manodopera in nero o sottopagata, per massimizzare il proprio guadagno. Ed è qui che entra in gioco il concetto di equosolidale.
L’equosolidale
Il concetto di commercio equosolidale nasce alla fine degli anni ’50 in una piccola città olandese, Kerkrade. Qui, una fondazione chiamata Sos Warelhandel, di ispirazione cattolica, lancia una campagna per la raccolta di latte in polvere a favore delle popolazioni povere della Sicilia (curioso no?).
In seguito, da informale, questa organizzazione inizia a consolidarsi e, sempre in Olanda, nel 1969, dà vita alla prima Bottega del Mondo, con prodotti alimentari e di artigianato.
Nel 1994 nasce invece Fairtrade. Si tratta di un marchio internazionale con base in Germania, di cui Fairtrade Italia è l’espressione locale (ne fanno parte anche organismi del Terzo settore come Arci, Acli, Legambiente, Banca Etica, e Ong come Focsiv, Oxfam Italia). Le organizzazioni di produttori appartenenti a Fairtrade, nel mondo, sono ben 1240. I prodotti con il Marchio di certificazione FAIRTRADE sono ad oggi più di 35mila e sono distribuiti in 140 Stati. Prodotti realizzati da circa 1,6 milioni di lavoratori in 75 Paesi.
In Italia, Fairtrade è presente dal 1994 e oggi i suoi punti vendita sono più di 5mila, con un valore del venduto pari a 76 milioni di euro.
Ma Fairtrade è solo uno degli esempi presenti nel mondo equosolidale. Esistono infatti le grandi centrali di importazione come Ctm Altromercato, Liberomondo, Altra Qualità, Equo Mercato e Ram, riunite nell’Agices.
Tutte queste organizzazioni sono impegnate nel “fair trade”, cioè del commercio fair. Un commercio equo che mette davanti a tutto il valore etico e sociale dei prodotti e successivamente quello ambientale.
Il commercio equosolidale si pone come obiettivo quello di evitare lo sfruttamento dei lavoratori, soprattutto nel Sud del mondo (e nelle ex colonie) con modalità diverse.
Una di queste è pagare un prezzo equo ai produttori locali. Poi, attribuire un premio, cioè un sovrapprezzo, che i produttori devono utilizzare in progetti di sviluppo sociale. Ancora, fornire ai produttori più svantaggiati un prefinanziamento e contrastare il lavoro minorile.
Grande attenzione per i diritti umani, ma anche per i valori di sostenibilità ambientale. Molti agricoltori, infatti, utilizzano il premio per convertire la propria azienda in biologica.
Le certificazioni biologiche
Una delle principali differenze che intercorre tra i prodotti biologici e quelli equosolidali risiede nel metodo di certificazione.
«Il marchio biologico – spiegava tempo fa Paolo Carnemolla, presidente di Federbio – nasce da una normativa pubblica, che in Europa esiste da vent’anni ma che si trova anche in altri paesi del mondo, seppur con alcune differenze.
Al contrario, la certificazione dell’equo e solidale è un sistema privato, cioè è la singola associazione che garantisce il marchio che vende; sicuramente, si tratta di un sistema più elastico rispetto a quello del biologico, ma rischia anche di mostrarsi meno strutturato e trasparente».
Per entrare nel settore biologico e commercializzare i prodotti con il marchio biologico UE, le aziende agricole, agro-zootecniche e di trasformazione devono rispettare specifiche norme contenute nel Regolamento Comunitario e sottoporsi, in Italia, al controllo di un ente autorizzato dal Ministero delle Politiche Agricole Forestali.
Le certificazioni equosolidali
La certificazione equosolidale è obiettivamente più complessa di quella biologica. Le sigle che garantiscono che i prodotti commercializzati sono rispettosi delle persone che li producono sono veramente tante.
Nel nostro Paese sono principalmente due le certificazioni, corrispondenti a due loghi, per l’equo-solidale.
La prima è FLO-CERT. Si tratta di un ente di certificazione che la stessa Fairtrade International ha fondato. L’obiettivo è di verificare che produttori, trader e aziende di trasformazione rispettino gli standard imposti dal marchio.
Oltre ai prodotti alimentare, il marchio può essere applicato a:
- Cosmesi
- Cotone
- Fiori e piante
- Palloni
Esiste poi una certificazione che si fonda sui protocolli della World Fair Trade Organization (Wtfo), che si occupa di assicurare degli standard precisi sulle organizzazioni.
Certificazioni in crescita ma bisogna prestare attenzione
La GDO italiana, comunque sia, è sempre più fornita di prodotti equosolidali.
Va aggiunto, inoltre, che nell’ultimo periodo il successo dei prodotti del commercio equosolidale ha portato alla nascita di un fiorente mercato delle certificazioni, più competitivo di prima. Una delle prime proposte alternative è stata quella di IMQ, che nel 2006 ha introdotto la certificazione “Fair for Life”. Questa certificazione riguarda anche prodotti non alimentari. Il fenomeno, però, va attentamente monitorato”.
(FOTO: Cocoa farmer David Kebu Jnr holding the finished product, dried cocoa beans ready for export.)