Sin dalla fine degli anni ’90 (Saito, 1998), è stata descritta in Giappone una particolare condizione psicologica che riguarda soprattutto gli adolescenti e i giovani adulti e che è stata definita hikikomori, letteralmente ritiro sociale.
“Il fenomeno degli hikikomori è destinato ad aumentare e a cronicizzarsi. Quando riapriranno le scuole molti non torneranno sui banchi, altri non usciranno nemmeno quando la pandemia lo permetterà”: è questa la previsione di Marco Crepaldi, psicologo e fondatore di Hikikomori Italia, associazione nazionale nata con l’obiettivo di sensibilizzare sul tema dell’isolamento volontario.
Le richieste del governo affinché il pubblico rimanga a casa ed eviti di riunirsi in gruppi per prevenire la diffusione del virus ha avuto un effetto negativo sugli hikikomori che stanno cercando di tornare nella società, ma anche una sempre maggiore chiusura in altre persone.
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Che cos’è la sindrome hikikomori?
Tale condizione si caratterizza per un rifiuto verso la vita sociale e scolastica o lavorativa per un periodo di tempo prolungato di almeno 6 mesi e una mancanza di relazioni intime ad eccezione di quelle con i famigliari più stretti.
I giovani hikikomori possono mostrare il loro disagio in vario modo: restare chiusi in casa tutto il giorno, oppure uscire solo di notte o di prima mattina quando hanno la certezza di non incontrare conoscenti, oppure ancora fingere di recarsi a scuola o al lavoro e invece girovagare senza meta per tutto il giorno.
Il fenomeno è stato spesso associato all’internet addiction, ma gli studi mostrano che solo nel 10% dei casi è stato riscontrato anche questo tipo di dipendenza. In realtà al momento è stata trovata solo una correlazione tra i comportamenti di ritiro sociale e alcuni sintomi dell’internet addiction (Wong, 2015), ma ancora non è stato condotto uno studio che permetta di stabilire una relazione causale tra i due fattori.
A partire dalla descrizione dettagliata del fenomeno operata dallo psichiatra Saito (1998), numerosi studi sono stati condotti in Giappone per capire le cause che sarebbero all’origine del manifestarsi di questo protratto rifiuto sociale. Da un punto di vista psicologico, si sono studiate innanzitutto le variabili familiari legate a relazioni disfunzionali di tipo invischiato e la copresenza di disturbi psicopatologici associati, come ad esempio la depressione.
Da un punto di vista sociologico, invece, si sono indagati soprattutto i fattori legati al particolare sistema culturale giapponese, basato sul confucianesimo, e ad un atteggiamento di anomia sociale e di rifiuto verso le severe regole morali e sociali su cui si basa la cultura tradizionale giapponese. L’ipotesi che ne è scaturita è quindi che questi giovani, pressati dai valori sociali basati sull’estremo perfezionismo e sulla tendenza a voler sempre primeggiare sia a scuola che al lavoro, non si sentano all’altezza degli standard loro richiesti e preferiscano quindi rinchiudersi in casa per evitare di affrontare una realtà quotidiana che avvertono come opprimente.
Associazione in Italia
Gli hikikomori italiani, secondo stime non ufficiali, sono circa 100mila: si tratta soprattutto di giovani uomini, di età compresa tra i 14 e i 30 anni. In Giappone, dove il fenomeno è nato, sono oltre un milione.
L’impatto della pandemia in questo contesto non passa inosservato, e nemmeno il numero di aumento dei casi.
“Facciamo un esempio – spiega lo psicologo Crepaldi -. C’è l’hikikomori che, prima del lockdown, stava cercando di uscirne. In questo caso, vediamo una battuta d’arresto: il giovane pensa di procrastinare la ripresa della vita sociale, le cure psicologiche a cui magari si era sottoposto e rimanda quindi la ‘guarigione’. C’è chi stava cercando di resistere alla tentazione di isolarsi che col lockdown potrebbe aver assaporato i ‘piaceri’ dell’isolamento e quindi potrebbe essersi convinto ancora di più della sua scelta. C’è infine il caso – ancora più numeroso – di chi non aveva alcuna intenzione di uscirne. Qui i danni della pandemia possono essere stati molteplici: prima di tutto, i genitori potrebbero aver sottovalutato il problema, presi da altro o distratti dal fatto che ‘siamo tutti in casa, è normale’. In secondo luogo, c’è il pericolo del contraccolpo psicologico che l’hikikomori potrebbe vivere alla conclusione definitiva dell’emergenza sanitaria. Sì perché se è vero che molti ritirati sociali hanno tratto sollievo da una società bloccata, esattamente come loro, ma cosa succederà quando tutto riprenderà normalmente e le persone torneranno a vivere la propria socialità in modo libero e spensierato? Ecco, forse in quel momento gli hikikomori realizzeranno, in un sol colpo, tutta la miseria della propria condizione. Realizzeranno che la loro ‘quarantena’ non è appunto un periodo transitorio causato da fattori esterni, come per le altre persone, ma una prigionia che può durare potenzialmente tutta la vita”.